Luglio 15, 2020

ERMAL META: L’INETTITUDINE COME SENTIMENTO

Il riscatto di un figlio inetto che ha utilizzato le cicatrici sulla schiena come sostegno di magnifiche ali pronte a spiccare il volo; l’inventiva contro un padre che non si può definire tale per la sua estrema brutalità nel rapporto con il figlio, oggetto sul quale sfoga una frustrazione interiorizzata e proietta la propria inettitudine; il grazie detto tra le lacrime amare di chi non ha potuto avere al proprio fianco un genitore pronto a sostenerlo, ma che ha saputo trasformare il senso di vuoto lasciato da un’assenza letale in un punto di forza: questo è quello che racconta Ermal Meta in Lettera a mio padre, non un semplice brano quanto più un modo per racchiudere quelle parole trattenute troppo a lungo, quelle che un figlio non ha il coraggio di dire al proprio padre, di cui non può non avere timore nonostante il distacco.

Lo spunto kafkiano è ravvisabile già dal titolo, ma si apre a nuove prospettive: il distacco del soggetto narrante è infatti totale, non c’è più il rapporto di odio e amore verso la terribile figura paterna, che non lascia spazio ad una dualità di sentimenti e che rimane presente solo come un qualcosa di esterno ravvisabile nelle rughe di espressione, nel legame di sangue e nel cognome dello stesso.

I figli non scelgono mai i propri genitori e quando si instaura una conflittualità non si può riemergere. Con questo brano Ermal Meta celebra la morte di un padre trasformato in bestia per poter rinascere, mettendoci di fronte ad un dolore che non può essere superato, quello di un figlio cresciuto con il rimorso di non essere stato mai accettato senza comprenderne i motivi.

Non c’è la volontà di cancellare un passato burrascoso, ma quella di strumentalizzarlo per essere una persona migliore e, soprattutto, una persona in grado di riconoscere le bestie travestite da esseri umani, quelle che uccidono i propri figli con la violenza delle parole fino ad annientarli facendoli sentire inutili ed insicuri, utilizzando la loro sensibilità come perno sul quale spingere fino a soffocarli.

Annalisa Di lorenzo

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